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LETTERE

Studi di settore: quando la Commissione tributaria giudica approssimativamente

Giovedì, 6 ottobre 2011

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Gentile Direttore,
in un periodo di grave crisi come l’attuale, che attanaglia soprattutto le aziende che quotidianamente assistiamo, noi professionisti non abbiamo mai nascosto come anche l’Agenzia Entrate, con i suoi accertamenti volti (giustamente) a reprimere l’evasione e quindi a recuperare gettito, debba valutare con particolare attenzione i presupposti (di fatto e di diritto) degli atti di imposizione (la cosiddetta “sostenibilità” dell’accertamento cui gli stessi vertici dell’Agenzia delle Entrate fanno spesso riferimento), per le gravi ripercussioni che essi possono avere nella vita dell’azienda e delle persone.

Emesso l’atto, è chiaro che, se il contribuente ritiene non corretto/illegittimo l’operato dell’Agenzia, ha come unico rimedio – per tentare di rimuoverlo – la via giudiziale del ricorso tributario.
E qui si sovrappone l’altro tema di grande attualità, ossia l’importanza, anche sociale, che assume oggi la figura del giudice tributario, che con la sua preparazione e terzietà dovrebbe garantire il rispetto delle norme.

Tuttavia, quando quest’ultimo giudica, mi permetto di dire, con approssimazione, superficialità e “senza guardare gli atti di causa”, ecco allora che il sistema rischia di implodere, con gravissimi danni per le aziende e l’economia in generale. Ottenendo di fatto l’esatto contrario di quello che la stessa Agenzia delle Entrate si prefigge: espellere dal mercato le aziende che evadono.

E giungo, finalmente, al motivo che mi ha spinto a scrivere queste righe di “sfogo”.
Relativamente a un accertamento fondato puramente ed esclusivamente sugli studi di settore (si contestavano a una srl maggiori ricavi pari ad appena il 3,9% dei ricavi dichiarati), con cui si avanza una pretesa fiscale di complessivi 200mila euro (imposte e sanzioni), la C.T. Prov. di Bergamo sez 8 (sent. n. 189/8/11) ha avuto l’ardire di scrivere questo pericoloso quanto (ritengo) errato principio di diritto: “Invero, contrariamente a quanto sostenuto dai ricorrenti, per espressa disposizione di legge (art. 62-bis) e per la giurisprudenza consolidata, gli accertamenti induttivi possono basarsi alternativamente o sull’esistenza di gravi incongruenze ovvero sugli studi di settore; in questo caso gli studi di settore rappresentano ipotesi di presunzione qualificata, con la conseguenza che l’onere della prova contraria ricade sul contribuente”.

Premesso che l’articolo non è il 62-bis ma semmai l’art. 62-sexies (DL 331/93), basta leggere attentamente la norma di legge per capire il grave infortunio in cui è incorso il giudice di prime cure: “Gli accertamenti di cui agli articoli 39, primo comma, lettera d), del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600, e successive modificazioni, e 54 del decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633, e successive modificazioni, possono essere fondati anche sull’esistenza di gravi incongruenze tra i ricavi, i compensi ed i corrispettivi dichiarati e quelli fondatamente desumibili dalle caratteristiche e dalle condizioni di esercizio della specifica attività svolta ovvero dagli studi di settore elaborati ai sensi dell’art. 62-bis del presente decreto”.
In pratica, le gravi incongruenze non sono assolutamente “alternative” agli studi di settore, come crede e sostiene il giudice.

Senza tacere, in ultimo, relativamente alla contestata carenza di motivazione, il passaggio in cui la sentenza afferma che “l’ufficio ha, in esito al contraddittorio, pienamente valutato le osservazioni della parte ritenendole del tutto ininfluenti”. Per verità di cronaca, riporto la (solita) clausola di stile adoperata dall’Agenzia delle Entrate nel verbale di contraddittorio: “i motivi addotti dalla società (…) non sono ritenuti dall’Ufficio idonei a giustificare lo scostamento dei ricavi dall’applicazione degli studi di settore”.

Ecco allora che, nonostante le numerose sentenze (di merito e di legittimità) emesse in questi ultimi due anni in materia di studi di settore, si è tornati in un solo colpo all’“anno zero”.

Vero è che esiste il rimedio dell’appello, ma questo comporta che intanto l’azienda debba pagare gran parte della pretesa, per la quale Equitalia ha già rifiutato la rateizzazione (ulteriore negazione di un diritto riconosciuto dalla Cassazione SS.UU. n. 20778 del 7 ottobre 2010: la ripartizione del pagamento in più rate mensili è “all’evidenza,  una disposizione destinata a venire incontro alle necessità del debitore, per il quale rappresenta quindi un’«agevolazione», che anche nel linguaggio comune ha, per l’appunto, il significato di aiuto, favore, facilitazione”).

Morale: o la srl in oggetto paga subito Equitalia per evitare il blocco dei mezzi necessari a svolgere l’attività o paga gli stipendi e i contributi mensili di 17 operai.


Sandro La Ciacera
Ordine dei Dottori Commercialisti e degli Esperti Contabili di Milano

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