Il successo dell’escapologo fiscale è anche colpa dei commercialisti
Gentile Redazione,
a ogni nuova uscita dell’escapologo fiscale, un imprenditore che vende consigli su come risparmiare le tasse, la categoria dei dottori commercialisti insorge.
Ci sentiamo defraudati del nostro ruolo, vilipesi soprattutto laddove ci si attribuisce una mancanza di intraprendenza nell’analisi critica e nella conseguente applicazione della norma tributaria. Ma ancora di più preoccupati da una facile quanto vaga promessa di risparmio fiscale, alla quale, temiamo, gli imprenditori, nostri clienti, possano fare affidamento, abbandonando la fiducia riposta in noi e nei nostri servizi.
Servizi prestati dopo anni di preparazione, universitaria, tirocinio, studio continuo, formazione obbligatoria, rispetto di norme etiche e deontologiche, nonché investimenti in assicurazioni professionali, aggiornamento, quotidiani e riviste di settore. Fatiche e impegni che sembrano ignoti all’escapologo.
Un tale soggetto in realtà non è altro che il ripresentarsi di un fenomeno noto ai dottori commercialisti, ovvero quello dei “praticoni”, individui che da sempre insidiano un mercato ampio, forse a basso valore aggiunto, ma determinante per la nostra categoria. Non ce ne voglia il signor Rosati. Non è lui il problema in verità.
Analoghi timori generano nella categoria le massive campagne che hanno accompagnato l’ingresso nel nostro mercato di conglomerati associativi di matrice imprenditoriale: la CNA ne è un esempio. Questa associazione di categoria ha assunto dimensioni commerciali importanti, tanto da diventare un concorrente temibile per molti di noi.
Peraltro è indubbio che alcune di queste, come ad esempio la CGIA di Mestre, siano ormai percepite come un riferimento per studi e ricerche econometriche in ambito tributario. Con buona pace delle troppo numerose fondazioni di categoria sparse per il territorio.
Tuttavia, il comune denominatore è sempre lo stesso: non tanto la presenza sul mercato a noi caro di questi fenomeni, ma la nostra scarsa propensione a farci baluardo, attivamente, delle nostre prerogative. I dottori commercialisti hanno puntualmente demandato la promozione della loro immagine al singolo, mai veramente curando la promozione del ruolo istituzionale. Promozione peraltro solidamente contenuta da precise norme deontologiche che impediscono il ricorso alla pubblicità aggressiva e alla feroce concorrenza tra colleghi, norme che però non hanno creato alcun ostacolo alla concorrenza altrui.
A nulla sono valsi i pallidi tentativi del Consiglio nazionale: al di fuori di dotti convegni e nobili interventi, in realtà è stata di scarsissima diffusione la promozione dell’immagine professionale del commercialista.
Forse una tale attività non è neanche nei compiti del Consiglio nazionale, i cui ambiti di manovra dovrebbero restare circoscritti al ruolo proprio di un ente pubblico. Di certo, comunque, il Consiglio non ha nel tempo assunto tale onere.
E allora dovrebbero essere le associazioni di categoria a svolgere il compito di promuovere anche con strumenti pubblicitari la figura e il ruolo dei dottori commercialisti.
Sì, spetterebbe alle associazioni. Ma come? La partecipazione dei colleghi alle associazioni è scarsissima: solo il 10% degli iscritti partecipa ad associazioni di categoria. Il restante 90% lamenta la scarsità di efficacia di intervento delle associazioni. Le entrate delle associazioni non sono lontanamente paragonabili a quelle del Consiglio nazionale.
Eppure i colleghi si inalberano a ogni nuova uscita dell’escapologo, a ogni nuovo spot radiofonico della CNA. Ma pochissimi partecipano attivamente perché finalmente qualcosa cambi. Dunque, se l’escapologo o altri insediano il nostro mercato, la colpa è anche e soprattutto nostra. Individuale e collettiva.
Le risorse comuni dei dottori commercialisti sono per un verso imbrigliate e disperse in mille rivoli istituzionali. D’altra parte non vi è alcuna significativa, corale e condivisa partecipazione alle associazioni di categoria. Vi sono viceversa aspettative che non tengono conto dei limiti imposti dalla legge verso il Consiglio nazionale e aspettative che non tengono conto dei reali mezzi a disposizione verso le associazioni.
Occorrerebbe innanzitutto far chiarezza sui reali ambiti di intervento degli ordini locali e nazionale, smettendo di sbandierare nelle campagne elettorali promesse di azioni che un ente pubblico, proprio per la sua natura, non potrebbe mai intraprendere.
È necessario si percepisca la necessità di partecipare alle associazioni di categoria, da utilizzare come strumento per raggiungere scopi che né il Consiglio nazionale, per la sua natura, né il singolo iscritto, per ovvie dimensioni economiche, potrebbero perseguire.
Andrebbero infine coordinate le azioni delle due entità, Consiglio nazionale e associazioni di categoria, ricordando che unica finalità è la tutela della nostra categoria. Con vero spirito di servizio e soprattutto con ampia partecipazione e condivisione.
Senza questa maturazione, di coscienza e conoscenza di categoria, non andremo lontani.
Andrea Ferrari
Presidente AIDC