Residenza estera a rischio se il datore di lavoro concede lo smart working
/ Luisa CORSO
Nell’attuale contesto lavorativo è frequente il caso in cui le persone siano assunte da datori di lavoro esteri i quali concedono di svolgere, per alcuni periodi, l’attività lavorativa da remoto in modalità agile nel proprio Stato di origine, dove risiedono anche i familiari o le persone con cui si hanno legami significativi. Questa situazione comporta alcuni profili di rischio legati all’individuazione della residenza fiscale. Si pensi, ad esempio, a una lavoratrice che abbia stipulato un contratto con una società estera in cui siano previsti 10-12 giorni al mese di smart working, durante i quali la persona presta attività in Italia, presso l’abitazione di proprietà del compagno, non coniugato. La stessa ha a disposizione un immobile nello Stato estero mediante contratto di locazione mentre non possiede immobili o conti correnti in Italia. In un caso come quello prospettato, sotto il profilo della normativa domestica, l’art. 2 del TUIR, in vigore dal 2024, pone una prima criticità rispetto al criterio del domicilio fiscale che reca la specifica accezione di “luogo in cui si sviluppano, in via principale, le relazioni personali e familiari della persona”, privilegiando dunque le relazioni personali e familiari rispetto a quelle prettamente economiche. Nella nozione di “relazioni personali e familiari”, secondo l’Agenzia delle Entrate (circ. n. 20/2024, § 2.1.1), rientrano sia i rapporti tipici (matrimonio e unione civile), sia le relazioni personali connotate da un carattere di stabilità che esprimono un radicamento con il territorio dello Stato (è ad esempio il caso delle coppie conviventi). Allo stesso modo, precisa l’Agenzia, può assumere rilievo la dimensione stabile dei rapporti sociali. Secondo Assonime (circ. n. 25/2024) le relazioni personali e sociali devono essere segnalate da elementi fattuali, come la presenza significativa sul territorio dell’individuo e/o del suo nucleo familiare, nonché attraverso l’utilizzo dei servizi e delle infrastrutture disponibili nel territorio dello Stato. Fatte queste premesse, il caso prospettato, in cui la persona presenta un legame affettivo rilevante sul territorio italiano (il compagno), potrebbe essere suscettibile di contestazioni da parte dell’Amministrazione finanziaria, la quale potrebbe ritenere configurato il domicilio fiscale in Italia. Allo stesso modo, andrebbe attentamente monitorato il parametro della presenza fisica, laddove, unitamente al periodo di smart working, la persona, come logico, trascorresse in Italia i periodi di pausa dal lavoro; se, cumulativamente, gli stessi rappresentassero la maggior parte del periodo di imposta, sarebbe integrato un elemento ulteriore per considerare la persona residente in Italia. Una volta verificata la residenza fiscale in Italia in base ai criteri domestici, occorre poi valutare se, in base ai criteri convenzionali, la stessa potrebbe invece essere qualificata come non residente. Sempre facendo riferimento al caso ipotizzato, la persona disporrebbe di un’abitazione permanente in entrambi gli Stati e bisognerebbe quindi indagare il luogo in cui è stabilito il centro di interessi vitali, il quale considera sia le relazioni personali, sia le relazioni economiche (ciò, se la Convenzione internazionale interessata è conforme al modello OCSE; in taluni casi invece i trattati potrebbero invertire la gerarchia tra abitazione principale e centro di interessi vitali). Tale valutazione richiede di contemperare gli elementi con valenza diversa; ad esempio, avere un conto in banca, carte di credito, una patente in un determinato Stato non dovrebbe rilevare in modo incisivo per la determinazione del centro di interessi vitali, posto che si tratta di elementi che possono essere ottenuti velocemente e facilmente, mentre la casa famigliare, la presenza di figli, di un partner e di un lavoro in un certo Stato denotano un maggiore collegamento con tale territorio. In tale ottica, rileva anche l’evoluzione dei rapporti personali sul territorio, per cui un eventuale matrimonio con il partner, residente in Italia, esprimerebbe la volontà di un collegamento durevole con l’Italia e ciò anche se la persona ha spostato le proprie relazioni economiche all’estero. In questo contesto, nell’interpretazione della norma internazionale, un possibile elemento da valorizzare sarebbe legato alla riconoscibilità esterna dell’attività economica prestata; ove, infatti, vi siano interessi economici fortemente radicati sul territorio estero e riconoscibili a terzi, si potrebbe sostenere che il centro di interessi vitali è stabilito nello Stato estero, superando in questo modo la nozione di domicilio fiscale. La questione non sarebbe invece di facile risoluzione avendo riguardo a un consulente con clienti all’estero, in quanto l’attività di consulenza è soggetta a forte mobilità e quindi non in grado di determinare un forte collegamento con lo Stato estero. Ove non sia possibile stabilire il luogo del centro di interessi vitali, in virtù della sussistenza di rapporti economici e sociali all’estero, si passerebbe alla terza regola, relativa al luogo di soggiorno abituale, da stabilire in termini di frequenza, durata e regolarità.